Il Jihad tra dottrina e pratica

Iniziamo con un po’ di “teoria” e storia. Come accennato, la dottrina jihadista moderna si rità al salafismo, le cui radici sono nell’era islamica medievale. Sebbene in generale i jihadisti o salafiti jihadisti associno se stessi alle linee guida del salafismo, si distinguono da questa corrente sulla base di un’interpretazione spesso più radicale del credo e delle azioni dei Salaf al-Sâlih, i “pii avi”. Infatti, l’esempio di tali predecessori è oggetto di emulazione anche per altri attori islamisti influenzati dal salafismo, come i Fratelli Musulmani in Egitto. Infine, poiché il discorso jihadista continua a ricorrere alla citazione del concetto islamico di umma, o comunità di credenti, presteremo attenzione a tale nozione, fulcro del progetto jihadista militare moderno.

Aspetti dottrinali del Jihad

Sebbene il jihadismo sia un fenomeno moderno, il concetto di ‘jihad’ è profondamente radicato all’interno della religione islamica, presentandosi nei due principali testi sacri, Corano e Hadîth. L’espressione araba jihad fî sabîl Allâh, letteralmente “sforzarsi sul sentiero di Dio”, appare numerose volte all’interno del testo coranico senza indicare necessariamente un’azione

fisica o violenta; in molti casi infatti, acquista il significato di difendere o propagare l’Islam attraverso la da‘wa, la predicazione o l’azione pia. Ciò detto, il termine jihad nel senso di ‘harb’, guerra o ‘qitâl’ lotta, è comunque presente nel Corano.

Alcuni teologi islamici e, nello specifico i mistici sufi, suddividono il jihad in due categorie:

  • al-jihad al-akbâr, il ‘Jihad Maggiore’,lo “sforzo” per raggiungere il sentiero di Dio, che corrisponde alla lotta interiore contro i desideri e le passioni individuali
  • al-jihad al-asghâr, il ‘Jihad Minore’, ossia il jihad condotto contro l’apostasia.

In questo contesto, è importante citare la visione sufi del jihad per sottolineare la peculiare concezione che esso assume nell’ideologia jihadista o salafita jihadista. Mentre i sufi prestano maggiore attenzione ad un jihad di tipo pacifico, consistente nello sforzo personale contro le ambizioni umane, i jihadisti si concentrano sull’idea della lotta contro gli apostati. Mostreremo, così, nel corso della trattazione, come l’aspetto militare del jihad, per i jihadisti, sia necessario per il ripristino della umma, o comunità islamica.

L’uso moderno del termine Salaf si fa risalire agli scritti e alle teorie degli intellettuali riformisti islamici di fine XIX secolo. Il

lemma salafiyya pare infatti esser stato coniato da Muhammad ‘Abduh (1849-1905), il quale proponeva una riforma del mondo islamico che prendesse in considerazione un ritorno alla purezza originaria dei Salaf alSalîh, i pii avi, assieme ad un processo di modernizzazione tecnologica e scientifica che seguisse il modello occidentale. Il movimento salafita, nella sua forma più intransigente, sembra però respingere l’atteggiamento riformista e insistere ulteriormente sull’idea del ritorno ai Salaf nella dimensione più pura e radicale. La prima codificazione della corrente salafita può esser datata al IX secolo, ossia nel momento in cui il teologo Ibn Hanbal fonda una scuola giuridica (madhab) conservatrice che dà nascita alla dottrina hanbalita. Il movimento è da allora noto con il nome di ’Ahl al-Hadîth, la “Gente degli Hadith”. Bisogna, invece, attendere il XIV secolo per far sì che, un altro teologo e giurista hanbalita, Taqî al-Dîn Ibn Taymiyya (m. 1328) ricorrendo allo stesso appello delle virtù religiose dei Salaf, estremizza il ruolo della sharia, la legge islamica, e fornisce una nuova base di legittimazione religiosa per i jihadisti moderni.

Nel libro “I Cavalieri Sotto la Bandiera del Profeta”, Ayman al-Zawâhirî, nuovo leader di al-Qaîda dopo la morte di Usâma Bin Lâden, definisce Ibn Taymiyya (disegno a sinistra) “Shaykh al-Islâm”, Sceicco dell’Islam. Numerosi gli altri esponenti del jihadismo o dell’islamismo radicale contemporaneo che ricorrono alla frequente citazione di Ibn Taymiyya, per la importanza che egli dà alla jihad.

Tra le fatwâ (parere legale islamico) più famose del teologo hanbalita Taymiyya vi sono quelle indirizzate ai mongoli invasori di Damasco nel 1300. Sebbene convertiti all’Islam, i nuovi governanti di Damasco vengono apostrofati come apostati o infedeli in quanto ignorano l’applicazione della sharîa. È in questo modo che Ibn Taymiyya legittima il jihad contro il ‘nemico’. Le fatwâ contro i mongoli sono dunque un riferimento importante per i jihadisti poiché forniscono loro una sorta di ‘legittimazione’ per combattere i musulmani che non applicano la legge islamica (o parti di essa).

Un elemento importante della legge islamica è il rispetto tawhîd.

Il termine arabo tawhîd letteralmente significa ‘unità’. Si tratta di un concetto essenziale nella fede islamica, una manifestazione della sua natura monoteista, secondo cui Dio è Uno e Supremo. Fin dai primi giorni del Profeta Muhammad, l’essere musulmano viene associato alla dichiarazione della shahâda, la testimonianza di fede, che consiste nella dichiarazione che “non c’è Dio all’infuori di Allah e Muhammad è il Messaggero di Allah” (lâ ilaha illa Allâh, Muhammad Rasûl Allâh.

Il principio del tawhîd sviluppato da Ibn Taymiyya, viene poi ravvivato da Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb (1703-1792), foto a sinistra, nel Najd, regione centrale del moderno Stato saudita, eponimo della corrente religiosa wahhabita. Secondo ‘Abd al-Wahhâb i principi del tawhîd possono essere riassunti in tre componenti:

  • tawhîd ar-Rububiyya, l’Unicità di Dio
  • tawhîd al-’Uluhiyya, l’Unicità del Culto
  • tawhîd al-Asma’ wa as-Sifât, l’Unicità dei Nomi e degli Attributi.

Questi concetti telologici potrebbero sembarvi astratti e “antichi”, ma vengono usati per ricercare delle leggitimazioni di azioni molto recenti e molto note. Facciamo alcuni esempi.

Sull’esempio di Ibn ‘Abd al-Wahhâb, per quanto riguarda la Unicità del Culto, i salafiti vietano severamente la ricerca di qualsiasi tipo di mediazione da parte dei “marabut” (figure simili ai nostri “Santi”), pratica comune in numerose zone del mondo islamico compresa la Tunisia, ove è frequente vedere i loro mausolei nel deserto o tra le montagne, chamati anch’essi marabout. Questo atteggiamento spiega, in parte, la loro ostilità verso il Sufismo. È infatti contro i marabutti sufi che i salafiti tunisini hanno diretto alcuni attacchi dal 2011 al 2013. E (aggiungo io, visto che al momento della stesura della Tesi non era ancòra successo… il terribile attacco alla moschea sufi in Egitto a novembre 2017).

Riguardo il concetto di “Unicità dei Nomi e degli Attributi”, in base alla quale i nomi e gli attribuiti di Dio, non potendo essere spiegati dalla mente umana, incapace di comprendere la vera essenza divina, devono essere accettati senza alcuna spiegazione, ciò è stato preso a motivazione nel 2011 per l’attacco al cinema Africart di Tunisi, in occasione della proiezione del film documentario “Né Dio Né Padrone”, diretto dalla regista tunisina residente in Francia Nadia al-Fanni, sia la sede televisiva privata Nessma TV, presa di mira per aver mandato in onda il film Persepolis, della regista di origine iraniana naturalizzata francese, Marjane Satrapi, in cui Dio viene raffigurato come un vecchio uomo con una lunga barba bianca.

Per concludere, diremo che la corrente religiosa saudita del Wahhabismo è divenuta importante per i moderni jihadisti non solo perché fornisce loro un modello (e una legittimazione/giustificazione) basato sul principio del tawhîd (unicità) ma anche perché intraprende il jihad al fine di far rivivere la umma, guidata da un imam, un leader della comunità religiosa, in grado di far rispettare la sharîa, in cui sia insito il principio di hâkimiyya (sovranità di Dio).

Come Ibn ‘Abd al-Wahhâb e successivamente Qutb, anche i jihadisti contemporanei ritengono che ricorrere alle leggi umane sia simbolo di peccato in quanto queste si sostituiscono alla legge divina, e basarsi sulle leggi decise dagli uomini distruggerebbe la “umma”, la comunitè dei fedeli. Si comprende quindi l’importanza vitale che il concetto di umma assume per i jihadisti contemporanei, il quale, si traduce in termini pratici in un progetto da difendere ufficialmente (e con la violenza).

È quindi importante concentrarsi sulle caratteristiche della umma dei Salaf, la prima comunità islamica (i pii avi), a cui i

salafiti in generale e i jihadisti in particolare si ricollegano, poiché tale concetto rappresenta un riferimento storico decisivo. Infatti i teologi del jihad e in generale i jihadisti fanno continuamente riferimento ai fatti storici del primo periodo islamico, all’arco temporale che racchiude la vita di Muhammad e dei suoi quattro successori, detti Califfi ‘Ben Guidati’.

1.1.2 Umma: referenza jihadista

Il termine umma è generalmente inteso come il corpo della comunità musulmana, una “comunità umana in senso religioso” o “gruppi etici, linguistici o religiosi oggetto del piano di salvezza divino”. In questo senso, la umma rappresenta la comunità dei credenti nell’Islam e nel suo Profeta. I jihadisti ritengono che la preservazione del modello profetico e dei suoi primi compagni, i Salaf al-Salîh, sia necessaria per assicurarsi che non vi sia alcuna deviazione dal tawhîd. Pertanto, mostreremo come, proprio in accordo a tale dottrina, Muhammad combatte nel nome del tawhîd affinché venga fondata la umma di credenti che contrasti l’ignoranza dominante la comunità dell’era pre-islamica o jâhiliyya.

I detti e le azioni del primo periodo della vita del Profeta, contraddistinta dalla lotta attraverso il jihad, necessaria al fine di unificare le tribù preislamiche presenti nella penisola araba e stabilire la comunità musulmana, rappresentano una sacra fonte storica di ispirazione per jihadisti moderni, i quali pianificano il loro attivismo in accordo agli orientamenti pratici offerti dalla Sira Nabawiyya (Vita del Profeta). In altre parole, la Sira fornisce ai jihadisti una sorta di road map per il ripristino della perduta umma islamica dei Salaf. Essa rappresenta una storia guida su come il Profeta e i suoi primi compagni, inizialmente un debole e minacciato gruppo, riescono a fondare un vasto impero.

Esistono varie opere risalenti al IX secolo in cui viene riportata non solo la vita di Muhammad, ma anche gli eventi e le guerre a cui assiste la sua comunità. I racconti dei detti e dei fatti del Profeta, noti come hadîth indicano che, almeno a partire dall’hijra, la migrazione a Medina nel 622 d.C., la vita di Muhammad era “in gran parte, anche se non interamente, dedicata alla condotta della guerra”.

L’elenco delle battaglie compiute da Muhammad lascia pensare che il tawhîd, un messaggio universale, deve essere propagato attraverso il jihad proprio così come fece il Profeta affinché la sovranità di Dio venga ristabilita. Sotto quest’ottica la lotta jihadista è una lotta per l’universalità del tawhîd e per la rinascita del modello della prima umma.

Il jihad, che segue il modello di Muhammad, è di importanza cruciale per i jihadisti moderni e contemporanei, che, seguendo Ibn Taymiyya, elevano il jihad nel nome del tawhîd al rango di ‘pilastro dell’Islam’. Infatti, la “sfida rivoluzionaria” jihadista, come il noto accademico Fawaz Gerges la definisce, è particolarmente evidente proprio nel loro “sforzo sistemico di elevare lo stato del jihad nella coscienza musulmana e renderlo equivalente ai cinque pilastri dell’Islam”. Lo stesso Profeta condusse il jihad per la salvaguardia del tawhîd nella città della Mecca o altrove con l’obiettivo di propagare l’universalità monoteista opposta al politeismo e all’apostasia. Muhammad combatte gli arabi così come i romani e i persiani “con la spada in una mano e il Corano nell’altra” come lo storico inglese Edward Gibbon suggerisce.

Per i jihadisti, la guerra e la violenza trovano legittimazione nella necessità di stabilire la supremazia del tawhîd, una missione avviata dallo stesso Profeta agli albori dell’Islam. Intraprendere il jihad per i jihadisti del giorno d’oggi acquista la valenza di un dovere individuale, fard ‘ayn, non più collettivo, importante quanto la preghiera rituale giornaliera o il digiuno durante il mese di Ramadan. I musulmani che si rifiutano di intraprendere questo jihad, come sottolinea la ricercatrice italiana Barbara De Poli, “vengono trattati come infedeli, combattuti e uccisi”.

Secondo l’ideologo egiziano Sayyid Qutb (foto a sinistra, 1906-1966) i cui testi sono ancora oggi analizzati dai seguaci dei movimenti jihadisti in tutto il mondo, la più grande conquista del Profeta Muhammad consiste nell’aver fondato, attraverso il credo del tawhîd, un’unica umma monoteista fuoriuscita dalla società tribale pre-islamica.

Analizziamo un altro noto fatto storico per poi ricollegarlo ad un fatto attuale. Come sapete dai libri di Storia e anche dal riassunto elementare fatto all’inizio di questa pagina, Maometto fu costretto ad abbandonare la  predicazione pacifica (da’wa)  alla Mecca, e spostarsi all’oasi di Yathrib (Medina) a causa della crescente ostilità dei potenti leader della comunità dei Quraish. Nonostante alcuni quraishiti credono nell’unicità del Dio predicato da Muhammad, la maggior parte dei membri della potente tribù è refrattaria all’abbandono delle loro leggi e delle loro tradizioni ora minacciate dal governo di Dio. Infatti, il termine ‘Islam’ letteralmente significa “sottomissione”43 ed è chiaro che il credo del tawhîd comporti non solo l’obbedienza a Dio, ma la sottomissione alla Sua sovranità (quindi per l’appunto la sfera del poter temporale si trova subito in pericolo…)

A Medina, Muhammad viene risparmiato dell’ostilità e della repressione che il suo messaggio incontra alla Mecca. C’è infatti nella città una sorta di atmosfera di libertà politica che facilita la sua da‘wa, la sua missione di predicazione. Non c’è alcuna ragione di intraprendere la guerra santa o jihad. È per questa ragione che la firma del patto con gli ebrei e gli arabi miscredenti, si rivela essere un passo tattico all’epoca necessario. Questa strategia richiama alla memoria il comportamento di Abû ‘Iyâd, nel momento in cui afferma, nei primi giorni della fondazione di Ansâr alSharî‘a, che la Tunisia è terra di da‘wa e non di jihad.

Ma torniamo a Mamoetto. Il messaggio del tawhîd deve essere esteso infine verso La Mecca, questa volta però attraverso il jihad così, il Profeta Muhammad torna a combattere la dominante tribù dei Quraish nello scontro noto come Battaglia di Badr, il 13 Marzo 624 d.C.46. Il teologo e politico pakistano Abû al-A’la alMawdûdi sostiene che dopo “la vittoria decisiva” di Badr, l’Islam “divenne la religione dello Stato, anzi lo Stato stesso”. È proprio confusione tra la sfera politica e quella religiosa, insita alla fondazione della prima umma, che in seguito si rifanno i primi jihadisti moderni. Questi ultimi, infattim cercano di rovesciare i regimi secolari apostati, antagonisti alla legge divina, e instaurare governi che rispettino il principio del tawhîd, un cui elemento chiave è l’hâkimiyya.

Sviluppato dai moderni teorici del jihad, di cui maggiore esempio è Sayyid Qutb, La hâkimiyya, o sovranità di Dio, è il criterio in base al quale i jihadisti giustificano la lotta contro l’apostasia che regna nei paesi islamici. Muhammad fonda una umma governata dalla sharî‘a, mentre l’istituzione del Califfato viene progettata per riempire il vuoto che l’eventuale morte del Profeta avrebbe lasciato garantendo, non solo la supremazia della legge islamica e dunque del tawhîd, ma anche la sua propagazione al di fuori dei confini della penisola araba, nelle terre in cui la hâkimiyya viene ignorata.

La strategia è dunque chiara per i jihadisti contemporanei: bisogna applicare il takfîr, la scomunica, verso i regimi secolari moderni e dichiarare il jihad contro tutti coloro che si oppongono al loro progetto di far rispettare l’Islam come sistema politico ideale alternativo.

Teorici classici come Ibn Taymiyya e ideologi jihadisti contemporanei, tra cui il giordano-palestinese Abû Muhammad al-Maqdîsi, sviluppano così il concetto di takfîr o scomunica, come criterio necessario al fine di distinguere i musulmani dai non musulmani. Per legittimare il jihad contro i governanti apostati dei paesi arabi musulmani, al-Maqdîsi collega il concetto di takfîr a quello del wala’ wa l-bara’, “lealtà e dissociazione”, nozione che indica essenzialmente l’alleanza totale a Dio e la dissociazione da tutto ciò che va contro le Sue leggi. In accordo al credo del wala’ wa lbara’, il jihad contro i regimi secolari diventa un obbligo. A tal riguardo, tra i pensatori contemporanei radicali, Juhayman al-‘Utaybi è un esempio allorché, a capo di un gruppo radicale mette in pratica il concetto del wala’ wa l-bara’ incitando i membri a ribellarsi contro il re dell’Arabia Saudita e a occupare la Grande Moschea della Mecca nel 1979.

In conclusione diremo che, la prima umma rappresenta per i jihadisti una fonte storica valida da cui trarre non solo l’ispirazione dottrinale ma anche quella pratica utile per combattere il jihad al giorno d’oggi. Questo jihad deve essere condotto sia nel nome del tawhîd contro i politeisti seguendo il modello di Muhammad, ‘Maestro dei Mujâhidîn’, sia sulla base alla dottrina del wala’ wa l-bara’ contro i sovrani musulmani che non governano attraverso il principio della hâkimiyya. Le due argomentazioni sulla legittimazione del jihad mostrano così l’oscillazione dei jihadisti contemporanei tra le strategie nazionaliste e quelle internazionali alla ricerca del raggiungimento del loro obiettivo finale, il risveglio della umma islamica e del suo perso califfato.

La pratica del Jihad moderno

In una lettera scritta il 16 giugno 2014, indirizzata a Abû Bakr al-Baghdâdi e ad Ayman al-Zhawâhirî, leader di al-Qa‘îda e teorico del jihad, dopo Usâma Bin Lâden, Abû ‘Iyâd (o Abû ‘Iyâd al Tounsi, vero nome Sayf Allah Ben Hassin) ex-fondatore del Gruppo Combattente Tunisino (TGC) e attuale (ufficialmentre dato per morto il 14 giugnio 2015 ma varie voci riferiscono che sia ancora vivo e vegeto e attivo a fine gennaio 2017 al confine Libico/Tunisino) Emiro di Ansâr al-Sharî‘a in Tunisia (AST) scrive:

Queste nuove conquiste che Dio ha garantito alla umma devono essere investite al fine di avvicinare i differenti punti di vista dei diversi gruppi jihadisti che combattono per la supremazia del tawhîd al fine di applicare la sharî‘a sulla Terra. Bisogna avvicinare le prospettive di tutti i nostri fratelli e rivalutare la politica del jihad nel Levante alla luce di ciascuna attualità regionale in accordo alle parole dell’Altissimo “Dio ama coloro che si allineano come un solido edificio per combattere nel Suo nome”

Interpretando in modo singolare una varietà di referenze scritte a partire dai Testi Sacri (Corano e Hadîth), i jihadisti forniscono la ragione principale per combattere il jihad ai nostri giorni. IJihadisti sono convinti che l’Islam sia stato distorto dalla corruzione e dall’innovazione, bida‘, così da deviare dal credo basilare del tawhîd, una dottrina universale divenuta il fulcro su cui fondano e guidano la prima umma islamica il Profeta prima e i pii successori, i Califfi ‘Ben Guidati’, in seguito. Inoltre, il tawhîd, come dottrina universale, è considerata dai jihadisti contemporanei l’elemento chiave per la

realizzazione del loro ultimo obiettivo, il risveglio della umma come menziona la lettera di Abû ‘Iyâd. Per far ciò, i jihadisti scelgono il confronto diretto con i regimi apostati a cui spesso si riferiscono come taghut, letteralmente “tiranno”. In termini operativi, il piano militare jihadista consiste in azioni di guerriglia rivolte contro lo Stato, il suo apparato e le sue istituzioni. Tali operazioni aiutano a preparare il terreno per la realizzazione del Califfato, al-Khilâfa in arabo, il sistema politico fornito come modello ideale dall’Islam, considerato l’unica istituzione in grado di governare la comunità musulmana sulla base della Legge Divina, la sharî‘a.

Nella loro prima fase, i jihadisti moderni di paesi quali Arabia Saudita, Egitto, Algeria e Tunisia, tesero verso la dichiarazione di un Califfato all’interno dei propri confini nazionali rovesciando i regimi nazionalisti locali considerati tiranni corrotti e apostati a causa della loro natura secolare antagonista alla legge islamica. Un esempio sono gli scontri tra l’organizzazione ‘Jihad Islamica Egiziana’ e il regime del presidente Anwar Sadat nel corso degli anni ’80.

Ad Est, in Iran, una rivoluzione islamica ribaltò il regime dello Scià Reza Pahlavi dichiarando la nascita dello Stato Islamico nel 1979. Anche in Tunisia i jihadisti mirarono al regime del Presidente Habib Bourguiba, attaccando inizialmente una posta e un ufficio di polizia nel 1984 per poi attaccare, il 2 agosto 1987, quattro alberghi di Sousse e Monastir, nella regione natale di Bourguiba. I jihadisti tunisini coinvolti negli attacchi, membri del gruppo ‘Jihad Islamica’, anche noto come ‘Banda di Sfax’, erano per la maggior parte gli ex-membri più radicali del ‘Movimento di Tendenza Islamica’ (MTI) distaccatisi dal gruppo poiché insoddisfatti della richiesta di legalizzazione politica dell’ MTI nel 1984. Sucessivamente l’attivismo jihadista moderno cambia la sua strategia passando da un jihad locale, con un’agenda politica nazionalista consistente nella sostituzione dei regimi secolari con dei Califfati, ad un jihad di tipo transnazionale. La nuova strategia dell’internazionalizzazione della lotta viene articolata nella dichiarazione con la fondazione, nel 1998, del ‘Fronte Islamico Mondiale’ (al-Qa‘îda) ad opera di Bin Lâden e di Ayman al-Zhawâhirî. Viene inoltre teorizzata negli scritti di numerosi jihadisti e si è successivamente manifestata in diverse occasioni negli ultimi due decenni, specialmente con gli attacchi dell’11 settembre. Questa nuova strategia può essere intesa in termini propriamente globali nella misura in cui decentralizza e coordina le lotte jihadiste.

Ciò nonostante, prima di analizzare il modo in cui il cambiamento è avvenuto e studiarne le motivazioni strategiche, bisogna prestare maggiore attenzione alle dimensioni politiche e addirittura etiche implicitamente presenti all’interno di concetti quali umma e Califfato, nozioni sempre elaborate in uno stretto contesto religioso. Infatti, nonostante i jihadisti tendono a presentare le loro motivazioni in termini teologici, il loro attivismo e la loro pianificazione strategica è altamente politica. Ciò detto, la comprensione del sistema di governo jihadista potrebbe dipendere, in una certa misura, dall’aspetto politico già insito in concetti chiave come Califfato e umma.

Umma: progetto politico jihadista moderno

La umma islamica, generalmente definita come la comunità di credenti nell’Islam e nel credo del tawhîd, va oltre la dimensione religiosa basica per includere una dimensione politica. Un primo aspetto per cui la umma acquista connotati politici consiste nel fatto che essa sia l’espressione della solidarietà nazionale di un gruppo o il senso di appartenenza ad una stessa comunità religiosa. Il noto islamista algerino Muhammad Arkoun (1928-2010), sostiene che la umma islamica si inscrive all’interno di un preciso “spazio politico e giuridico” noto come Dâr al-Islâm, ‘Casa dell’Islam’72. Il resto del mondo, invece, la Dâr al-harb o ‘Casa della Guerra’, è al contrario segnato dall’assenza di tawhîd. I termini Dâr al-Islâm e la sua controparte Dâr alharb non esistono né nel Corano né negli Hadiîh. Essi vengono coniati dalle

prime scuole di giurisprudenza islamiche (fiqh) per differenziare i territori sotto il controllo degli imperi islamici in cui i musulmani sono al sicuro, dai territori governati da leggi ‘apostate’. I concetti di Dâr al-Islâm e Dâr alharb compaiono esaustivamente nella letteratura jihadista. Teorici come ‘Abd al-Salâm Faraj e Adallah Azzâm, usano la suddetta terminologia non solo per interpretare le differenti fasi della fondazione dell’impero islamico partendo dall’era di Muhammad, ma legittimano il jihad come ‘Guerra Santa’ all’interno dei paesi musulmani arabi ora classificati come Dâr alharb per la presenza tra essi di regimi secolari antagonisti all’applicazione della sharîa.

A tal proposito, Faraj formula i concetto del ‘Nemico Vicino’ e del ‘Nemico Lontano’, operando una divisione strategica del mondo di cruciale importanza in merito al cambiamento di tattica dell’attivismo jihadista delle ultime tre decadi poiché mostrano il passaggio dalla lotta locale a quella globale.

Un secondo aspetto in base al quale la umma acquista connotazioni politiche è la sua stretta dipendenza dall’esistenza del Califfato, la struttura politica che la unifica, la governa e la protegge. In termini religiosi, così come in termini politici, niente può unificare la umma, eccetto l’istituzione del califfato, un’istituzione progettata, in accordo a quanto sostiene il noto sociologo tunisino Ibn Khaldûn (1332-1406), a sostituire i ruoli politici, religiosi e giuridici di Muhammad. Il Califfo, secondo tale logica, deve “proteggere la religione ed esercitare la guida politica del mondo”77. Il ruolo politico del califfato è dunque in funzione al suo incarico religioso in quanto governa la comunità seguendo il modello di Muhammad, ossia applicando la Legge Divina.

Ciò detto, all’interno del discorso politico islamista in generale e di quello jihadista in particolare, il Califfato rappresenta l’unica struttura potenzialmente valida da raccomandare come alternativa islamica al nazionalismo politico degli indipendenti Stati arabi secolari, di cui la Tunisia è un esempio. La funzione dell’istituzione del Califfato non ha valore solo all’interno di un discorso nazionalista: in esso è implicita una dimensione transnazionale. La concezione stessa del califfato è sempre associata all’idea di una umma islamica universale. Il Califfo, in altre parole, deve dominare tutti i musulmani senza tener conto delle frontiere territoriali, della razza, del colore o della lingua.

È sulle basi di questa visione universale della umma che i jihadisti contemporanei cercano di riorganizzare la battaglia in termini globali specialmente per il fatto che il ‘nemico vicino’, locale, è protetto e sostenuto dal ‘nemico lontano’, globale, per il quale una comunità islamica divisa e debole serve meglio ai suoi interessi strategici ed economici all’interno della Dâr al-Islâm. A titolo di esempio Ayman al-Zhawâhirî, nel suo Fursân Tahta Rayat an-Nabî, spiega la necessità di attaccare il ‘nemico lontano’ evidenziando il bisogno di “condurre la battaglia nella terra del nemico in modo tale da bruciare le mani che appiccano il fuoco nelle nostre terre”.

Le prime esperienze nazionaliste

Egitto, Arabia Saudita e… Tunisia

La dottrina jihadista si fonda sull’interpretazione delle sacre Scritture islamiche, Corano e Hadîth, resa da una singolare influente minoranza di giurisperiti islamici, gli ulema. Questi ultimi, attraverso una sorta di dichiarazione legale chiamata fatwâ, indirizzano i musulmani a combattere il jihad: un obbligo religioso che ogni musulmano deve intraprendere nel momento in cui gli affari della umma non fossero governati dalla sharîa.

Il jihad moderno, così come viene sperimentato nei Paesi arabi a partire dalla metà del XIX secolo fino alla fine degli anni Ottanta del XX secolo, è sempre stato condotto sulla base del “consenso degli ulema per la necessità di disobbedire e rovesciare i governi apostati che modificano le leggi divine” come sostiene Ayman al-Zawâhirî. Ulema e teorici del jihad medioevali e moderni sono sempre stati d’accordo nel sostenere che la legge all’interno della Dâr al-Islâm deve essere la sharîa. Inoltre si è sempre acconsentito che la lotta per il jihad contro i tiranni “governanti apostati che modificano le Leggi Divine [sharîa]” sia un dovere individuale, fard ‘ayn.

La da‘wa, la predicazione pacifica, gioca un ruolo chiave nella trasmissione delle fatwâ jihadiste che legittimano la lotta in nome della supremazia della perduta fede nel tawhîd e della difesa dell’occupata Dâr al-Islâm, in cui l’oppressa e soggiogata umma musulmana, deve lottare per la realizzazione del Califfato idealizzato sul modello dei pii Salaf e basato sulla sharîa In diversi paesi arabi e in diverse fasi storiche dell’era moderna, l’agenda politica del jihad nazionalista fa totale affidamento su gruppi di individui convinti della missione purificatrice della dottrina salafita. Come jihadisti o salafiti jihadisti, questi si dedicano alla lotta, in termini propriamente bellici, al fine di ottenere un cambiamento politico. Tale cambiamento serve a ripristinare la umma islamica dei Salaf nel suo senso universale. I jihadisti hanno combattuto, per la rinascita dell’unità della umma dei Salaf. Ma tale obiettivo è considerato realizzabile solo nel momento in cui viene ristabilito il califfato. L’istituzione califfale infatti pare per loro essere l’unica istituzione in grado di porre fine al dominio secolare dei regimi nazionali locali, considerati illegittimi in quanto ignorano la sharî‘a e poiché spesso complici dell’Occidente, infedele invasore.

Sulla base delle fatwâ dell’ulema hanbalita medievale Ibn Taymiyya (fatwâ emanate per la necessità di combattere il jihad al fine di ripristinare la dottrina islamica del tawhîd), Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb ambisce a formare una alleanza politica nazionalista, sfruttando la forza militare della tribù di Ibn Sa‘ûd e i seguaci degli ulema Wahhabiti. L’obiettivo consiste nella fondazione del califfato saudita che contrastasse il corrotto e agonizzante governo degli Ottomani. La missione wahhabita nell’Arabia del XIX secolo impose, spesso con l’uso della forza, il suo metodo purista. In questo senso, sotto la bandiera del jihad contro gli infedeli, ‘Abd alWahhâb negoziò, nel patto appena menzionato con Ibn Sa‘ûd, un compromesso politico sulle cui basi si fonda la nascita dello Stato saudita. Questo Stato aspira, fin dal suo principio, a porsi come un Califfato che governa la comunità musulmana per mezzo della sharîa. L’attivismo nazionale jihadista appare dunque, per la prima volta nella storia moderna, sotto forma del Wahhabismo e la consequenziale nascita dell’Arabia Saudita. Più tardi però Ibn Bâz, ulema wahhabita, dichiarò l’apostasia degli stessi governanti sauditi e la loro deviazione dal tawhîd attraverso una fatwâ emessa all’inizio del 1990 come reazione allo “stazionamento di truppe americane in Arabia Saudita”.

Le dottrine salafite puriste, come il Wahhabismo, e più genericamente la dottrina a cui ci si riferisce come Salafismo, legittimano il jihad contro i regimi tirannici apostati, spesso complici della colonizzazione occidentale delle terre islamiche come nel caso dell’Arabia Saudita o dell’Egitto. Il discorso jihadista si cristallizza ulteriormente a partire dall’armistizio israelo-egiziano del 1949, il fallimento dei regimi nazionalisti indipendenti di entrambi i presidenti egiziani, Jamal Abd an-Nasser e Anwar Sadat e la continua repressione di personalità islamiche. A partire dal 1970, il gruppo militante noto come ‘Jihad Islamica Egiziana’ intraprende la lotta contro il regime prima assassinando Anwar Sadat, poi occupando la provincia di Asyut nel mese di Ottobre 1981. L’avvenimento è

ricordato dai jihadisti egiziani come “Primavera Islamica”. Ispirati da ‘Abd as-Salâm Faraj, la Jihad Islamica Egiziana ritiene che il jihad sia obbligatorio per fondare uno Stato islamico che interrompa le relazioni con gli apostati regimi complici dell’Egitto. Seguendo la tradizione di Ibn Taymiyya, infatti, Faraj eleva lo stato del jihad tanto da renderlo il sesto pilastro dell’Islam, un obbligo religioso vincolante come il digiuno e il pellegrinaggio.

L’esperienza jihadista egiziana è di importanza cruciale in quanto l’attivismo jihadista moderno, oltre ad interessarsi alla continua evoluzione dell’interpretazione della dottrina islamica in merito alla necessità del jihad, fa riferimento all’esperienza militare e strategica che, per esempio, la Jihad Islamica Egiziana, guidata da Ayman al-Zhawâhirî, fornisce con la fusione alla rete jihadista globale di al-Qa‘îda.

Tuttavia, prima di analizzare il cambiamento strategico jihadista moderno, che passa dalla lotta al ‘Nemico Vicino’ a quella diretta al ‘Nemico Lontano’, vale la pena notare che l’esperienza tunisina si caratterizza primariamente per l’importante apporto al jihadismo transnazionale. Le ragioni risiedono nel fatto che l’esperienza tunisina si struttura in un movimento di giovani in diaspora che manifestano la loro progressiva e considerevole presenza tra le fila dei combattenti afgani, passando alla pianificazione di importanti attacchi all’interno del proprio paese natale, la Tunisia, solo a partire dal 2002.

Tra i primi attacchi nel paese (Tunisia) vi sono quelli diretti contro alcune istituzioni statali: un ufficio postale e un commissariato di polizia, entrambi attribuiti alla ‘Jihad Islamica’. gli stessi membri del gruppo pare siano complici degli attacchi agli hotel situati sulla costa tunisina, regione natale del presidente Bourguiba. allora Presidente, Bourguiba fa giustiziare alcuni membri della Jihad Islamica, altrimenti nota come ‘Banda di Sfax’. La Banda di Sfax ingloba i membri più radicali del ‘Movimento di Tendenza Islamica’ (MTI), coloro che decisero di sciogliere la ‘fratellanza’ con l’MTI, insoddisfatti della richiesta di riconoscimento politico e dell’attivismo democratico e non violento della Tendenza.

Sebbene la Jihad Islamica tunisina non ha successo nel dichiarare il Califfato, rappresenta uno sviluppo importante del radicalismo islamico come fenomeno recente in Tunisia. Gli islamisti radicali che precedentemente combattono il regime, all’interno dell’ MTI (struttura politica simile ai Fratelli Musulmani egiziani formata da Qutb), passano ora all’azione militare, tattica del jihadismo tunisino.

Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, i processi che conducono all’imprigionano e all’esecuzione di numerosi membri della Jihad Islamica, così come la violenta e continua repressione esercitata su di essi, contribuiscono a promuovere la propaganda per il jihad tra tanti giovani tunisini e tra gli islamisti in particolare.

Per concludere diremo che, il jihadismo tunisino, pur non essendo del tutto passivo all’interno del Paese nelle ultime decadi, è stato relativamente importante per la diaspora di combattenti attivi a livello transnazionale, in lotta in particolare sul fronte afghano, territorio in cui prendono corpo le relazioni strategiche tra coloro che daranno vita al ‘Gruppo Combattente Tunisino’ (GCT) e al contempo, i legami con personaggi chiave del jihadismo mondiale come Usâma Bin Lâden. Nel frattempo, di volta in volta i militanti tunisini riescono a colpire il regime di Ben Ali sia attraverso attacchi suicidi, come quelli verificatisi nella sinagoga Ghriba di Djerba l’11 Aprile 2002, durante il Patto Ebraico, sia attraverso scontri armati di cui esempio sono quelli diretti alla Guardia militare nazionale nella città di Slimane, situata nella zona nord di Tunisi, nei mesi di Dicembre 2006 e Gennaio 2007, quando le autorità tunisine rilevano che alcuni jihadisti, presumibilmente appartenenti ad al-Qaîda nel Maghreb Islamico (AQIM), cercavano di rifornirsi di armi all’interno del Paese.

Verso il Jihad transnazionale: la fondazione di AlQaeda e del Gruppo Combattente Tunisino (TCG)

Seguendo il primo modello fornito dal Profeta Muhammad e dai Salaf alSalîh, che migrano dalla Mecca a Medina in cerca di condizioni più favorevoli alla da‘wa, i jihadisti moderni fanno rivivere il rito islamico dell’hijra o migrazione, a partire dalla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 quando si muovono dai loro paesi d’origine (in particolare dalla Tunisia e dall’Egitto), governati da regimi secolari, perché perseguitati o repressi a causa del loro attivismo predicativo.

Nel momento in cui diventa impossibile intraprendere il jihad a livello nazionale, la guerra in Afghanistan con l’Unione Sovietica rappresenta un fronte favorevole per quei militanti intenzionati a continuare la ‘missione’ jihadista. Teorici del jihad e attivisti come l’egiziano Abdallah Azzâm contribuiscono ad attirare la diaspora jihadista araba in Afghanistan e in Pakistan per mezzo di elaborati dibattiti dottrinali che rendono il jihad un dovere personale, fard ‘ayn, necessario per proteggere le terre islamiche e le popolazioni di tutto il mondo. (in foto a sinitra, Abdallah Azzam. La foto è stata scattata – citiamo la fonte ovviamente senza potela verificare – durante una visita negli USA di Abdallah, che tenne una serie di conferenze nei campus, ospitato dalla Associazione degli studenti arabi musulmani supportata dall’Arabia Saudita. La cosa potrebbe apparire strana col senno di poi ma ricordiamo che USA e Arabia Saudita sono alleati…)

Stati come l’Arabia Saudita incoraggiano il combattimento sul suolo afghano sia attraverso la propaganda religiosa che attraverso il sostegno finanziario. Le organizzazioni all’interno dei Paesi del Golfo (e non da meno gli USA) forniscono, infatti, ai jihadisti in Afghanistan un consistente sostegno economico necessario alla fondazione di scuole religiose e campi di addestramento per migliaia di migranti arabi.

Ciascun paese arabo cerca di condurre i militanti verso il lontano fronte afgano poiché timorosi della minaccia che l’attivismo jihadista rappresenta per la stabilità dei propri regimi. Paradossalmente, proprio in Afganistan strateghi jihadisti, come Azzâm, forniscono, al moderno attivismo jihadista in diaspora, gli argomenti necessari alla globalizzazione della lotta in contrapposizione al classico programma nazionalista. Azzâm sostiene che il rovesciamento dei regimi locali sia secondario all’obiettivo universale: proteggere la umma islamica e le sue terre dal nemico occidentale globale.

Con la cooperazione di Usâma Bin Lâden, Adballah Azzâm fonda in territorio afgano, un’organizzazione chiamata ‘Maktab al-Khadamat’ (MAK), nota in italiano come ‘Ufficio dei Servizi’. L’obiettivo di tale organizzazione è quello di “diffondere la propaganda, raccogliere i fondi e reclutare nuovi membri attraverso una rete di uffici in trentacinque paesi”. Alla fine della guerra afgana nel 1989, Bin Lâden e Azzâm concordano, come riporta il Rapporto della Commissione sull’11 Settembre, che “all’organizzazione successivamente creata per l’Afganistan non è dato sciogliersi”. Concordano inoltre di stabilire “ciò che essi chiamano la base o la fondazione (al-Qa‘îda) come potenziale sede per il futuro jihad”.

Ciò nonostante il ‘Rapporto’ evidenzia l’esistenza di un disaccordo tra le ambizioni di Bin Lâden, a favore di una guerra globale condotta da al-AlQaîda contro l’Occidente, e il piano di Azzâm che prevede la lotta continua in Afganistan fino alla dichiarazione del Califfato Islamico per poi passare all’attacco di Israele. Il disguido si conclude con l’assassinio di Azzâm il il 24 Novembre 1989, assassinio attribuito ai jihadisti egiziani che condividono il desiderio di Bin Lâden “di vedere al-Al-Qa‘îda proseguire una strategia globale”.

Agli inizi degli anni ’90 Bin Lâden, trasferitosi in Sudan, si impone come “il capo di una confederazione jihadista internazionale” all’interno della quale egli istituisce l’Islamic Army Shura, un supporto per il coordinamento, il cui scopo è quello di arruolare “gruppi provenienti da Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Libano, Iraq, Oman, Algeria, Libia, Tunisia, Marocco, Somalia e Eritrea”. Bin Lâden stringe inoltre legami con numerosi altri gruppi jihadisti di Paesi africani e del sud-est asiatico e “mantiene collegamenti nel conflitto bosniaco”, ponendo quindi “le basi per una vera e propria rete terroristica globale”. Infatti, ben presto al-Al-Qa‘îda prende di mira obiettivi occidentali e americani in Somalia, Arabia Saudita e nella stessa città di New York con l’attacco del World Trade Center nel 1993. Di ritorno in Afganistan, il 23 Febbraio 1998, Bin Lâden indirizza una fatwâ al ‘Fronte Islamico Mondiale per il Jihad contro gli Ebrei e i Crociati’. Tale fatwâ, firmata da Bin Lâden e altri prominenti jihadisti tra cui Ayman al-Zhawâhirî, Emiro della Jihad Islamica Egiziana, rappresenta la concretizzazione della nuova strategia globale jihadista.

In Afghanistan, molti jihadisti arabi immigrati cercano di organizzare reti di combattimento. La formazione militare dei jihadisti, serve a prepararli per un eventuale attacco in patria al loro ritorno, nel corso degli anni Novanta, cioè una volta terminata la guerra. A seguito della visione strategica transnazionale elaborata alla nascita di alAl-Qa‘îda come Fronte Islamico Mondiale, queste reti jihadiste transnazionali di recente formazione svolgono generalmente un doppio ruolo: serviranno sia per la lotta a livello globale, sia per quella a livello locale, spesso collaborando con al-Al-Qa‘îda. Nel 2000, proprio in Afghanistan, nella città di Jalalabad viene co-fondato il Gruppo Combattente Tunisino (TCG) da Bin Lâden e Abû ‘Iyâd, alias Saîf Allâh Bin Hassine (in foto a sinistra, FETHI BELAID/AFP/Getty Images), l’attuale* Emiro di Ansâr al- Sharî‘a il gruppo jihadista fondato nel 2011 in Tunisia.

Il TCG, strutturalmente parlando, rappresenta quella varietà di organizzazioni jihadiste transnazionali e di reti nate in seguito all’esperienza afgana, avente come obiettivo quello di condurre la lotta a livello globale e allo stesso tempo a livello nazionale. L’affiliazione del TCG con al-AlQa‘îda è stata recentemente provata dai numerosi rapporti di sicurezza internazionale che, tra le varie fonti, si basano, sui feedback di indagini effettuate con i detenuti di Guantanamo.

* dico attuale con l’asterisco in quanto è stato dato per morto il 14 luglio 2015 dopo un attacco aereo americano nei pressi di  Ajdabiya in Libya, attacco indirizzato ad eliminare Mokhtar Belmokhtar. Questa informazione fu data al New York Times da una fonte anomima dei Servizi segreti Americani. Però la morte non è mai stata confermata nè dal Pentagono nè da Ansar al-Sharia.

La sintesi delle Nazioni Unite è la seguente:

The Tunisian Combatant Group was listed on 10 October 2002

pursuant to paragraphs 1 and 2 of resolution 1390 (2002) as

being associated with Al-Qaida, Usama bin Laden or the

Taliban for “participating in the financing, planning,

facilitating, preparing or perpetrating of acts or activities by, in

conjunction with, under the name of, on behalf or in support of”

and “recruiting for” Usama bin Laden, Al-Qaida (QE.A.4.01)

and the Organization of Al-Qaida in the Islamic Maghreb

(QE.T.14.01)

Il TCG, nato dunque con l’aiuto di Bin Lâden, comincia ben presto le sue missioni cooperative nel quadro della dichiarata guerra di al-Al-Qa‘îda all’Occidente, assassinando il leader avversario afghano Ahmad Shah Massoud, il 9 Settembre 2001, due giorni prima degli attacchi dell’11 Settembre. In parallelo, fondatori del TCG come Sami Ben Khmais Essid, contava sulla presenza di moschee e centri islamici, come l’Istituto Culturale Islamico di Milano, per formare network europei affiliati ad al-AlQa‘îda che pianifichino attacchi terroristici in Europa.

Vedremo nei prossimi capitoli come, la versione tunisina del jihad transnazionale assumerà una nuova concezione in cui il ruolo del TCG non può essere sottovalutato. Il gruppo, infatti, collaborando con al-Al-Qa‘îda nel Maghreb Islamico (AQIM), gruppo affiliato ad al-Al-Qa‘îda (la base), giocherà un ruolo estremamente importante nell’attacco ai regimi tunisini nel tentativo strategico di stabilire il califfato, soprattutto dopo la ‘Rivolta’ seguita alla cosiddetta Primavera Araba e la fondazione di Ansâr al-Sharî‘a in Tunisia con Abû ‘Iyâd.

Continua al Cap. 2